Caro Ettore, ti scrivo…

Ettore, figlio dello scrittore Luciano Bianciardi, ci ha lasciati

Caro Ettore, mi mancheranno le nostre chiacchierate, la tua ironia, il tuo sorriso. Ti conobbi a Bologna molti anni fa, forse addirittura quasi venti. Avevi organizzato degli incontri dedicati allo scrittore Luciano Bianciardi, tuo padre. Ti colpì che fossi venuta apposta da Grosseto e da lì siamo diventati amici.
Mi dispiace non averti potuto salutare, l’ultima volta ci siamo sentiti per la nevicata sull’Amiata e i negozi dove si affittavano gli sci. Mi dispiace che tu non ci sia più. E mi sembra strano parlare di te non al presente. Ricorderò la tua schiettezza tipicamente maremmana, la tua capacità di rendere divertente ogni tuo racconto che fosse di un viaggio o di lavoro non importa.

Caro Ettore, ti ringrazio per la tua amicizia; ti ringrazio perché quando ti chiesi di scrivere dei ricordi sull’alluvione del 4 novembre 1966 a Grosseto lo facesti subito, con generosità e con un’abilità di scrittura che probabilmente ti apparteneva per il Dna.
Avevi da ridire su molto, e quindi non mi dilungo, altrimenti chissà cosa dirai di questa mia lettera immaginaria.

Figlio di Adria Belardi e Luciano Bianciardi, Ettore era nato a Grosseto il 17 ottobre del 1949. L’ingegnere abitava con la moglie a Bologna. Del padre scrittore aveva ereditato l’ironia e la grande passione per la letteratura.

Un brano tratto dal testo di Ettore Bianciardi per il mio libricino ”Grosseto nel fango. L’alluvione dei dimenticati”, Laurum editrice, 2016.


Il mondo degli oggetti di Grosseto, da quel giorno, si divise in due categorie: la roba buona e la roba alluvionata. La roba alluvionata era quella rimasta sotto l’acqua e il fango per quattro giorni, venderla era diffi cile, bisognava regalarla o quasi, e la gente diventò tremendamente sospettosa: «Non sarà mica alluvionata eh?» chiedevano le donne quando il prezzo sembrava conveniente. La città era diventata una cosa allucinante, passavo con i miei stivali che il Camarri in via San Martino mi aveva venduto ? era l’ultimo paio, ma conosceva bene mia nonna ? vedevo da ogni negozio tirar fuori fango e merce varia, appunto alluvionata: dovevi stare attento, perché i negozianti, un po’ infuriati, la gettavano fuori con violenza, perché invendibile, delusi dal mancato guadagno, anzi dalla sicura perdita. Qua e là qualcuno rovistava tra la merce alluvionata, a cercare qualcosa di utilizzabile. Ricordo di aver portato a casa tanti quaderni ancora nuovi, ma macchiati dal fango e gonfiati dall’acqua; dappertutto c’era uno schifoso puzzo di marcio, era come se la città fosse stata contaminata da un morbo subdolo e atroce.
Andai in Comune e lì dopo pochi minuti mi mandarono a pulire dal fango l’ufficio postale del Corso, proprio davanti alla casa del vescovo. Eravamo in quattro o cinque e dopo un paio d’ore l’ufficio, lungo e stretto, era ormai pulito, ma il direttore, forse perché voleva far bella figura, continuava a buttare secchi d’acqua sotto gli scaffali, dicendo che c’era ancora tanto fango, da scaricare giù per il Corso. All’ora di pranzo salutai, e nel pomeriggio andai alla biblioteca
Chelliana, in via Mazzini. Andavo spesso lì a leggere e a prendere in prestito libri: c’era ancora il vecchio Gentili e mi sembra anche il povero Bruno Pellicci, di sicuro c’era il direttore, Aladino Vitali, sempre burbero e imbronciato. Mi portò di là nelle stanze degli scaffali, dove non ero mai entrato, ma da dove il vecchio Gentili compariva, curvo nei suoi anni con in mano il libro che avevo chiesto. Ora potevo finalmente vedere i libri nella loro collocazione: quelli dei piani più bassi degli scaffali erano tutti gonfi di acqua e fango e puzzavano terribilmente. Dovevamo tirarli fuori uno per uno, staccare le pagine che si erano appiccicate, facendo bene attenzione a non romperle e metterli appesi a fili tesi in mezzo alla sala di lettura, come fossero panni stesi ad asciugare. Restai molto tempo alla Chelliana, mi sentivo utile a qualcosa, ci tornai anche in primavera, per continuare il lavoro fatto. Di me alcuni sentenziarono che avevo ripetuto quello che aveva fatto mio padre nel ‘44, ma io neanche lo sapevo.

2 thoughts on “Caro Ettore, ti scrivo…

  1. Un ricordo bellissimo e struggente. Proprio vero che le somiglianze somatiche sono spesso solo coincidenze o comunque scherzi cromosomatici senza valore. Ma quando a somigliare sono le pagine, come quelle scritte da Luciano e da Ettore sulla stessa alluvione e forse sulla stessa gioventù, c’è qualcosa che ti commuove

Rispondi