“Jazz & Wine in Montalcino”: artisti internazionali festeggiano i 25 anni del festival

A ritmo di samba con la splendida voce di Paula Morelenbaum, nello scenario da favola dello storico Castello Banfi, è iniziata la venticinquesima edizione del festival “Jazz & Wine in Montalcino”. Mentre il leggendario Ron Carter ha aperto i concerti in Fortezza. Dopo la prima assoluta dell’Orchestra Nazionale Alexanderplatz, venerdì 22 luglio a ritmo di new tango e new musette, sempre sul palco della Fortezza di Montalcino, arriva una star mondiale. Riflettori accesi su Richard Galliano che, con la sua fisarmonica, insieme a Adrien Moignard alla chitarra e Diego Imbert al contrabbasso, offrirà al pubblico una serata che si preannuncia imperdibile. Il musicista francese festeggia i primi 50 anni di una carriera che lo ha portato sui palcoscenici più importanti del mondo: con il suo stile geniale, personale e colto Galliano ha letteralmente riscritto il linguaggio della fisarmonica diventando un punto di riferimento assoluto per questo strumento.
Sabato 23 luglio, si continua con John Patitucci Trio Feat. Rogerio Boccato – Yotam Silberstein. Il grandissimo bassista jazz John Patitucci, vincitore di due Grammy Awards, con Rogerio Boccato alla batteria e Yotam Silberstein alla chitarra dà vita a un trio jazz che ha da poco rilasciato un album inedito in cui le sonorità e i ritmi brasiliani si fondono in un equilibrio musicale tra interpretazione e improvvisazione.
La venticinquesima edizione di Jazz & Wine in Montalcino chiude domenica 24 luglio con un concerto straordinario che Mario Biondi e i fratelli Scannapieco, cresciuti musicalmente all’Alexanderplatz Jazz Club di Roma, dedicano alla memoria di Paolo Rubei, amico di una vita e compagno di mille avventure musicali.
Mario Biondi, uno degli artisti italiani più apprezzati a livello internazionale nel panorama della musica jazz/soul, sarà special guest di Daniele Scannapieco 5et, un quintetto di grande impatto sonoro, dal sound molto raffinato capitanato da Daniele Scannapieco al sax e con Antonio Scannapieco alla tromba, Michele Di Martino al piano, Luigi Del Prete alla batteria e Tommaso Scannapieco al contrabbasso.
Il festival è nato 25 anni fa dalla collaborazione tra la nota azienda vinicola Banfi, la famiglia Rubei dell’AlexanderplatzJazz Club di Roma e il Comune di Montalcino, una collaborazione che negli anni si è sempre più rafforzata ed è quest’anno dedicata a Paolo Rubei, indimenticabile e geniale direttore artistico di Jazz and Wine in Montalcino, prematuramente scomparso lo scorso mese di febbraio. La direzione artistica quest’anno è firmata da Eugenio Rubei (Alexanderplatz Jazz Club di Roma, Sound&Image) che, con passione e competenza, raccoglie il testimone dal fratello Paolo, proseguendo il percorso musicale tracciato dal padre Giampiero, ispiratore e ideatore di questo festival musicale unico al mondo.

Concerto di Natale: l’Amiata Piano Festival sceglie un “doppio” Beethoven

Con il tradizionale concerto di Natale si chiude la XVI edizione di Amiata Piano Festival in un anno che ha visto, pur nelle difficoltà della ripartenza, progetti in committenza e novità come la danza contemporanea su repertorio cameristico, a conferma della volontà di sperimentazione della Fondazione Bertarelli e della direzione artistica di Silvia Chiesa e Maurizio Baglini.

Il concerto “Beethoven: camera per 3 e per 7” si terrà sabato 11 dicembre 2021 alle 19 al Forum Bertarelli di Poggi del Sasso, in provincia di Grosseto. Un magnifico auditorium tra gli ulivi. Sul palco saliranno Maurizio Baglini al pianoforte, Gabriele Pieranunzi al violino, Francesco Fiore alla viola, Silvia Chiesa al violoncello, Alberto Bocini al contrabbasso, Corrado Giuffredi al clarinetto, Paolo Carlini al fagotto, Guido Corti al corno.

Ascoltare due volte lo stesso pezzo in una serata: follia o esperienza indimenticabile?
Ovvio, si scommette sulla seconda reazione da parte dell’affezionato pubblico di Amiata Piano Festival, abituato da sempre a programmi inconsueti, proposte sfidanti e vere sperimentazioni. La colonna portante di questo programma così raro è la firma di entrambe le composizioni, quel Beethoven per il quale venne coniato il termine “Komponist”, compositore di cui si può dire ancora oggi contemporaneo. Il Settimino op. 20 è un unicum nella letteratura musicale, un’atipica formazione composta da violino, viola, violoncello, contrabbasso, fagotto, corno e clarinetto al servizio di una musica definita dallo stesso Beethoven “facile”. Facile per l’ascolto, difficilissima per gli interpreti. E sul concetto di “difficoltazione” Beethoven opera poi un lavoro trascrittivo che porterà il Settimino ad essere un Trio: si è portati a pensare a una riduzione, ma fare in tre ciò che era stato concepito per sette diventa impresa quasi titanica, tanto che il Trio op. 38 non viene quasi mai eseguito giacchè il pianista si spaventa facilmente davanti a tanto materiale tecnicamente complesso e per gli altri due interpreti l’esposizione è sempre elevata. Nella versione destinata ai sette, invece, le difficoltà sono sempre alte, ma ripartite equamente: la sfida diventa quindi quella dell’essere tutti insieme protagonisti senza prevaricare alcun “compagno di squadra”. Un Beethoven dunque tecnicamente difficilissimo ma di facile ascolto e sempre molto amato dal pubblico.

Info e prenotazioni su ticket one fino alle 13 del giorno del concerto: https://www.ticketone.it/artist/amiata-piano-festival/

oppure entro le 17 del giorno del concerto potete chiamare il numero 339 4420336 o scrivere a tickets@amiatapianofestival.com Quest’anno, a causa delle restrizioni anti Covid, non potrà aver luogo la tradizionale cena di Natale che seguiva il concerto.

Il regalo di Noa per San Valentino

La dolcezza della voce di Noa, accompagnata dalla chitarra di Gil Dor, impreziosisce la giornata di San Valentino 2021 con un nuovo singolo. Per l’occasione, infatti, esce su tutte le principali piattaforme digitali della musica “My funny Valentine”: la cantante di fama internazionale ha scelto uno standard jazz che rappresenta il suo desiderio di comunicare al mondo l’amore, necessario e indispensabile, specialmente in questa fase critica per l’umanità. “My funny Valentine” è il primo singolo che anticipa l’album “Afterallogy”, realizzato nel suo studio durante la pandemia insieme al chitarrista Gil Dor, col quale collabora da oltre trent’anni.
Questa — rivela Noa — è in assoluto la mia canzone preferita. Credo di averla eseguita centinaia di volte fin dal primo giorno della mia carriera; è incredibile come ogni volta che la canto scopro qualcosa di bellissimo, come i sentimenti e il modo speciale in cui è stata scritta. Credo inoltre che sia un brano molto rilevante per i nostri tempi: oggi ognuno lavora per essere artificialmente perfetto e adeguato in una società che si basa esclusivamente sull’apparenza; questa canzone invece sembra ripetere ‘Ti amo per quello che sei e perché interessa quello che c’è dentro di te’. Si tratta dell’amore puro e vero, di qualcuno cioè che ci accetta per quello che siamo realmente, ed è per questo che ho pensato che il miglior modo per interpretarla non fosse quello di ‘sporcarla’ con virtuosismi o arzigogoli vocali ma quello di seguire una linea vocale semplice che mettesse in risalto l’emozione specifica sprigionata dall’essenza del brano. E anche il finale, che ogni volta che lo ascolto mi provoca un grande struggimento melanconico, è stato naturalmente generato dalle nostre improvvisazioni sentimentali e non poteva riuscire meglio insieme a Gil, anche in virtù della nostra lunga collaborazione. Queste sono sensazioni che vengono generate da posti molto profondi e lontani e che hanno il merito di unire una moltitudine di esseri umani diversi tra loro attraverso l’ascolto di una stessa canzone, nel cuore dei cuori di tutti”.
Nel progetto discografico, solo voce e chitarra, in uscita a fine aprile, sono stati selezionati brani di autori, poeti e compositori vicini a Noa per stile, pensiero e contenuti: tra questi Cole Porter, Lea Goldberg, Pat Metheny, Leonard Bernstein, Rodgers & Hammerstein. Un dialogo continuo tra Noa e Gil che, a distanza di decenni, può confermare, come evoca lo stesso titolo dell’album, che “dopo tutto” loro due sono ancora qui, più presenti che mai.

Grandi nomi del jazz al concerto di Natale

Teatri chiusi ma la musica non si ferma. La rassegna “La voce di ogni strumento”, diretta da Gloria Mazzi, con una diretta streaming ci farà entrare nell’atmosfera natalizia. Questo è il link http://shorturl.at/tKV08 a cui ci si potrà collegare per vedere e ascoltare a distanza “Jazz, the double side”.

Per il tradizionale concerto di Natale quest’anno Agimus, in collaborazione con il Comune di Grosseto, organizza domenica 13 dicembre a partire dalle 12 una doppia esibizione all’insegna del jazz con artisti del panorama musicale italiano e internazionale. Il concerto si terrà al teatro degli Industri, con trasmissione in diretta dal canale YouTube Teatri di Grosseto.

Durante la prima parte sul palcoscenico il duo formato da Simone Zanchini alla fisarmonica e live elettronics e Stefano Cocco Cantini al sassofono.

Nella seconda parte il quartetto jazz: Stefano Cocco Cantini al sax, Mauro Grossi al piano, Ares Tavolazzi al contrabbasso e Andrea Beninati alla batteria. Accanto a Stefano Cocco Cantini, considerato tra i più grandi sassofonisti italiani, artisti del calibro di Simone Zanchini, fisarmonicista tra i più interessanti e innovativi del panorama internazionale; Ares Tavolazzi, bassista e contrabbassista italiano di musica jazz che vanta prestigiose collaborazioni con artisti italiani e internazionali. Al piano troviamo Mauro Grossi, pianista, compositore arrangiatore e noto docente italiano, specializzato nella musica jazz che ha avuto fra i suoi allievi tanti nomi dell’attuale panorama musicale; alla batteria e alle percussioni Andrea Beninati che ha collaborato con grandi artisti.

L’evento si inserisce all’interno del mese della donazione (Musica e Solidarietà) a favore delle associazioni che Agimus sostiene: La Farfalla, Admo, Aipamm, Avis, Compassion.

Il Teatro Verdi riapre con un omaggio a Morricone

Dopo sei mesi di chiusura, il Teatro Verdi di Montecatini dedica una serata a Morricone con la soprano Rigacci

La cultura riprende lentamente i suoi spazi. Riapre il Teatro Verdi di Montecatini sabato 26 settembre alle 21 con uno speciale omaggio a Ennio Morricone interpretato dalla soprano Susanna Rigacci, che da vent’anni dà voce alla musica del maestro recentemente scomparso. Dunque a inaugurare in piena sicurezza la riapertura del Teatro Verdi di Montecatini, dopo oltre 6 mesi di chiusura, sarà il concerto “Musiche da Oscar” con le più celebri colonne sonore, dagli esordi con Sergio Leone, Elio Petri, Bernardo Bertolucci, fino alle più recenti collaborazioni con Tornatore e Tarantino.

Ospite speciale della serata e straordinaria interprete, la soprano Susanna Rigacci, che da vent’anni interpreta nei concerti e nelle incisioni la musica del maestro Morricone. Figlia di Bruno Rigacci, direttore e compositore fiorentino, si è formata al Conservatorio Cherubini di Firenze per poi divenire una delle voci più conosciute al mondo. La prima apparizione in pubblico della soprano dopo la morte di Morricone è stata il 17 settembre con l’Orchestra e il Coro dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia diretta da Antonio Pappano, e ora con l’ensemble Le Muse, diretta da Andrea Albertini, chiuderà la serata con quella che Morricone chiamava la “Suite Leone”, uno straordinario medley di “C’era una volta il west”, “Giù la testa” e “L’estasi dell’oro”. Protagonista strumentale del concerto sarà l’ensemble Le Muse, che ha rappresentato l’eccellenza musicale italiana all’inaugurazione del semestre di presidenza italiana all’Unione Europea. Diretto al pianoforte dal suo ideatore, il maestro Andrea Albertini, l’ensemble Le Muse condurrà attraverso un viaggio emozionale nell’universo creativo di Morricone. Musiche che diventano immagini, tanto sono radicate nella memoria collettiva le scene di alcuni film che le colonne sonore di Morricone hanno contribuito a far diventare celeberrimi. “C’era una volta il west”, “Il buono il brutto e il cattivo”, “Giù la testa”, le magiche atmosfere di “Mission”, le tinte più moderne di “Malena”, “Nuovo cinema Paradiso”, per approdare a “The hateful eight”, la colonna sonora che gli ha fatto vincere l’Oscar nel 2016.

Ascolteremo anche un Morricone che forse non ci aspettavamo, e cioè il Morricone autore di indimenticate canzoni come Se Telefonando portata al successo da Mina e Here’s to you cantata da Jon Baez. Chiuderà il concerto quella che Morricone chiamava la “Suite Leone”. Il Teatro Verdi riapre dunque in piena sicurezza con una platea ridotta di un terzo come da deroga regionale, mascherina obbligatoria in sala e distanza fra i non congiunti. I biglietti sono disponibili sia online su www.ticketone.it sia alla cassa la sera stessa del concerto. Si consiglia la prenotazione. Ingresso da 30 a 40 euro.

Addio a Ezio Bosso. “Sono in ogni nota che ho curato”

“Ogni giorno che c’è, c’è. E il passato va lasciato a qualcun altro”.

Ezio Bosso ci ha lasciato. Non sono solo i suoi cari, gli amici, gli appassionati di musica a piangerlo. Lo è ognuno che abbia trovato in lui la voglia di andare avanti con il sorriso. L’immagine che accompagna questo pezzo è dell’artista Dario Campagna.

L’amico musicista Paolo Fresu ha condiviso su Facebook un bellissimo ricordo:
Ci conoscevamo da vent’anni. Da quando ci trovammo, assieme ad altri compositori di musiche da film, a suonare assieme a Bologna nel Festival del Cinema Ritrovato. Ezio suonava il contrabbasso come nessun altro. Un virtuoso con una musicalità straordinaria che diventava un tutt’uno con lo strumento. Il suo archetto era una lancia poetica e la sua musica per archi, in particolare quella composta per la colonna sonora di “Io non ho paura”, è stata la porta per entrare nel suo mondo. Ogni tanto veniva a sentire i miei concerti nelle Langhe e lì parlavamo di musica e di quartetti d’archi oltre che del fatto che potesse scrivere per il gruppo di mia moglie. Lo incontrai a Londra dopo qualche anno con Ludovico Einaudi ed Ezio era un altro uomo.
Fisicamente intendo. Un uomo che parlava lento ma con la stessa profondità di sempre. Ci raccontò della sua malattia che ancora non era in stato avanzato ma della quale aveva compreso il percorso e la gravità. Per questo aveva già abbandonato il contrabbasso per suonare il pianoforte e dirigere. Ed Ezio era felice, con la sua forza straordinaria. Una mattina mi chiamò al telefono per comunicarmi di essere stato invitato al Festival di Sanremo. Gli dissi che mi sembrava un’idea malsana ma la sera che lo vidi in tv piansi sulla tovaglia a quadretti di una pizzeria. Un pianto sereno per un amico che, attraverso la popolarità dello schermo, condivideva finalmente la sua poesia luminosa e trasparente con tutti.
Una poesia che ha fatto bene al mondo. E poi le cattiverie dei musicisti e dei tanti: Bosso che suona il piano come un bambino o Bosso di cui si parla solo perché ha la SLA senza che nessuno si sia posto il problema di conoscere la sua vita. Senza sapere che una nota del suo piano valeva più di mille altre e che in quella nota c’era un vissuto mangiato in pochi anni di vita e di sogni.
Mi piace ricordare Ezio con due immagini.
Un pranzo nella nostra casa in una tiepida giornata di maggio in cui si parlava di musica contemporanea e di vita da vivere e i due bellissimi concerti a Time in Jazz. Il primo assieme al sottoscritto e a Erri De Luca sul tema dei “Piedi” davanti alla piccola chiesetta di Mores sotto un sole intenso e un silenzio surreale tagliato dal frinire delle cicale e quello con il suo gruppo di archi dentro il vulcano spento di Ittireddu. E poi un surreale concerto notturno con il pubblico seduto per terra e con un Ezio raggiante che illuminava la notte.
Queste sono le immagini che ho negli occhi e queste rimarranno con me per sempre. Rimarrà il suo sorriso intenso. Sorriso da ragionare con lentezza e che Ezio comandava con i muscoli di un cuore che era più grande di noi. Rimarranno le sue parole oltre agli occhi umidi dei tanti che accorrevano ai suoi concerti. Sono fortunato ad averti conosciuto. Fortunato ad averti conosciuto sempre uguale e sempre diverso”.

Ezio Bosso a 16 anni esordisce come solista in Francia. Studia contrabbasso, composizione e direzione d’orchestra all’Accademia di Vienna e collabora con diverse orchestre europee tra cui Chamber Orchestra of Europe, Festival Strings Lüzern, Deutsche Kammer-Virtuosen. È ricca la lista delle collaborazioni con prestigiose istituzioni musicali dove si è esibito come compositore, esecutore, direttore d’orchestra. Vincitore di importanti riconoscimenti come il Green Room Award in Australia o il Syracuse New York Award in Usa, la sua musica è commissionata dalle più importanti istituzioni operistiche mondiali. La serata-evento Rai3 “Che storia è la musica”, che l’ha visto nel triplice ruolo di autore, conduttore e direttore d’orchestra, ha letteralmente rivoluzionato la storia della divulgazione musicale in tv con ascolti superiori al milione di media e ne ha definitivamente sancito il ruolo centrale nel panorama classico, ruolo ribadito dal clamoroso sold out a 14 mila presenze per il suo debutto in Arena di Verona coi Carmina Burana ad agosto 2019. Ci lascia ma non del tutto perché:  “Sono in ogni nota che ho curato”.

I “gladiatori” della Libera Orchestra diretta dal maestro Scalzi

Lo guardano con riverenza e taluni quasi con timore. Ne assecondano i movimenti che li dirige, ne ascoltano con attenzione le parole. Sono terminate le prove. Una pausa a Casa Azul, il locale artisticamente arredato che si affaccia sul lungomare di Follonica in provincia di Grosseto. Prima che inizi il concerto ho il tempo di osservare i musicisti a riposo ma con già dentro l’adrenalina per la performance che li attende. È il momento giusto per intervistare Scalzi, che si apre senza riserve. Con immediatezza mi avvolge nelle contaminazioni del jazz, mi riporta alle origini africane di questo straordinario genere musicale. Intanto nel locale si mangia ai tavoli, si parla, si ride. Gli strumenti sono là al loro posto, vicino a ogni sedia dei componenti della Libera Orchestra, la big band diretta dal maestro Stefano Scalzi. È la prima serata della nuova stagione. Un video introduttivo ci proietta altrove, qui o forse a New Orleans.

Scalzi chiama in scena uno ad uno i suoi “gladiatori”. È lui a definirli così. “Perché noi vi diamo il sangue”, spiega. Di ciascuno tratteggia l’essenziale. Per sé non si presenta, non ne ha bisogno e per fortuna non ha velleità autoreferenziali. Tutti sanno che è il maestro. Dirige, presenta i brani in maniera non convenzionale, suona, tiene in armonia la big band. I musicisti lo seguono attenti, si guardano tra di loro, socchiudono gli occhi, trasportati da questa magia che non può che conquistare anche la platea davanti a loro. È inebriante. L’impatto sonoro di venti elementi è subito forte. È una botta. Assorbo l’adrenalina che trasuda dai musicisti, con i volti trasfigurati dall’estasi musicale. Quando Scalzi suona la conchiglia in un gioco di rimandi, richiami del mare si affacciano alla mente: delfini, sirene… Ho dimenticato il pensiero, sono solo senso. Lì e altrove. È un trip senza uso di sostanze stupefacenti. O almeno così me lo immagino. La gente ascolta, si muove, a volte batte le mani a tempo, con il viso aperto in un sorriso. Qualcuno parla, è vero, chiacchiera, e non so come faccia. Perché io e gli altri siamo rapiti. Completamente.

Scalzi, come nasce la Libera Orchestra?

“Da un’esigenza dissacrante. Il jazz è rimasto un po’ troppo imbrigliato nei salotti bene e vorremmo riportarlo alla sua vera essenza, espressione di libertà, creatività, socialità. Il jazz in mezzo alla gente, come era in origine. In modo molto semplice sono stati messi insieme musicisti, ex allievi, eccellenti e creativi artisti”.

Cosa hanno in comune i gladiatori di questa big band?

“Persone che mantengono un’anima vera, sincera”.

Che musica suonate?

“Il progetto è molto ambizioso perché la musica che suoniamo è molto articolata. Abbiamo scelto uno spaccato che va dalla fine degli anni Sessanta, quindi il periodo della rivoluzione culturale, fino ai primi anni Ottanta, con qualche incursione negli anni Novanta. È il periodo della contaminazione musicale tra jazz, pop, rock. Con un recupero forte della matrice africana. Quindi un percorso a ritroso, alle origini, che però abbraccia autori eruditi, europei e americani. Autori caratterizzati proprio dall’aver recuperato la spontaneità del jazz. La rilettura degli arrangiamenti è fedele. Abbiamo ricercato partiture d’epoca. Al materiale originale si uniscono poi arrangiamenti miei”.

Il pubblico quindi non è elitario?

“No, è molto variegato e apprezza l’autenticità della proposta”.

Il progetto Libera Orchestra a Casa Azul è una “una sala prove” aperta, sperimentale; la fusione precisa tra il jazz dell’orchestra e le intuizioni e sperimentazioni di Stefano Scalzi, che spinge gli orchestrali verso atmosfere da club anni ’70, ’80, ’90 (T. Jones, B. Brookmeyer, J. Zawinul, B. Mintze) dove le varie culture si mescolano e si influenzano l’una con l’altra, o addirittura verso frenesie musicali estremamente creative, tenendo in mano il suo amato trombone e le sue conchiglie. La Libera Orchestra è formata da 20 musicisti: 5 sax, 5 trombe, 4 tromboni, piano, basso, chitarra, batteria, e ne fanno parte i musicisti più talentuosi della zona. Trombe: Mirco Pierini, Emanuele Barbetti, Franco Gianni, Andrea Lagi, Massimo Trimboli, Duccio Columpsi. Tromboni: Stefano Scalzi, Davide Salvestroni, Davide Michelini, Matteo Arnofi, Giulio Clementi. Sax: Yuri Nocerino, Luca Ravagni, Leonardo Allesi, Aldo Milani, Lucio Labate, Stefano Borgianni, Diego Rossi. Basso: Luca Tonini. Chitarra: Luca Giberti. Pianoforte: Alessandro Vasconi. Batteria: Riccardo Butelli. Per la serata di inizio stagione come ospite speciale è stato chiamato a suonare anche “Milani junior”, Gabriele, che suonando la tromba ha partecipato a due brani, tra gli applausi del pubblico e della big band, che è come una grande famiglia.

Il prossimo appuntamento a Casa Azul è per giovedì 17 novembre. E poi i concerti della Libera Orchestra verranno proposti ogni primo e terzo giovedì del mese nella “casa” nata proprio per dare spazio agli artisti. 

Durante l’esecuzione dei brani, emerge un solista ogni volta diverso. Lo strumento appare come un prolungamento del corpo del musicista, pervaso da uno slancio vitalistico, tecnico e al tempo stesso emotivo. È proprio l’empatia che mi fa amare il jazz.

Musica da ripostiglio, con “leggerezza”

Flessioni sul palcoscenico per ingannare l’attesa tra una prova e l’altra. Qualche battuta, due risate e si ricomincia, di nuovo, dall’inizio, con grande passione e impegno, aspirando alla perfezione. Luca Pirozzi canta, suona, compone, scrive. E, davanti alla platea, diventa il leader istrionico della band Musica da ripostiglio, sapendo anche giocare con il pubblico.

Hai sempre suonato in un gruppo?

“Sì, mi dà forza. Con Luca Giacomelli abbiamo iniziato ai tempi della scuola. È da 21 anni che suoniamo insieme”.

Ti senti il leader?

“Non più e ne sono felice. Soprattutto dopo il primo tour in teatro, ognuno di noi è diventato una parte essenziale del tutto, siamo alla pari e ciascuno di noi è valorizzato nel proprio ruolo”.

Ma i testi li scrivi tu?

“Sì e anche il 95 per cento delle musiche, ma poi ci lavoriamo tutti insieme”.

Dopo ‘Servo per due’ con Favino, cosa porterete a teatro?

“Da marzo, oltre ai concerti, ripartirà il tour teatrale con due spettacoli, una ripresa di Signori, in carrozza! con Paolo Sassanelli. E poi debuttiamo con uno show nuovo, A ruota libera, per la regia di Giovanni Veronesi, che dirigerà in diretta la rappresentazione che quindi ogni sera risulterà diversa. Sul palco con lui ci saranno Rubini, Haber e Papaleo, tra aneddoti e canzoni. Dal 29 marzo al 9 aprile saremo a Roma all’Ambra Jovinelli con questo divertente work in progress che ha per protagonisti quattro amici che si raccontano”.

Anche un nuovo disco in programma?

“Sì, i pezzi sono già pronti e a novembre entreremo in studio per realizzarlo. Per la primavera dovrebbe essere finito”.

Composizione e scrittura richiedono ispirazione ma anche un lavoro quotidiano. Concordi?

“La scrittura è intensa in alcuni periodi, cerco di trovare tempo per ogni cosa poiché sono autore, compositore, cantante, chitarrista. Adesso sto scrivendo. Nei mesi in cui non lo faccio, comunque, accumulo emozioni che poi tradurrò in una canzone, in una storia. Tutti i giorni dedico delle ore al mio lavoro, conciliandolo con l’essere marito e padre”.

Quel tuo civettare col pubblico è una propensione naturale?

“Mi è sempre piaciuto l’aspetto della presentazione del brano, creare una connessione con chi ho davanti. Patisco molto se non posso dialogare con il pubblico. Che poi proprio in questa interazione sta la magia dei concerti, nel sentire quello che ti torna indietro da parte di chi ti sta ascoltando. Anche i miei riferimenti musicali hanno questo lato istrionico, Fred Buscaglione, Celentano, Carosone”.

È il sangue del Sud…

“Sarà anche quello, le mie origini campane”.

Nelle tue canzoni parli della vita degli artisti, in una di tuo figlio.

“Cerco di raccontare la quotidianità in maniera lieve, che non significa superficiale. La leggerezza è una delle doti che inseguo per affrontare sia temi divertenti che profondi. Il brano Ti fai grande l’ho scritto per il mio figlio maggiore. La vita che cambia – da single a marito e poi padre – inevitabilmente modifica gli argomenti che affronti. Proprio perché dal vissuto trovo ispirazione”.

L’attuale formazione di Musica da ripostiglio comprende Luca Pirozzi, chitarra e voce; Luca Giacomelli, chitarre; Raffaele Toninelli, contrabbasso; Emanuele Pellegrini, batteria e percussioni. Durante i concerti si esibiscono anche con l’orchestra sinfonica Città di Grosseto e con Aldo Milani, sassofoni e clarinetto, come è avvenuto nella splendida serata benefica per Amatrice al teatro Moderno del capoluogo maremmano. Le atmosfere, decisamente retrò, cavalcano lo swing dei primi anni del secolo scorso con influenze gitane e francesi, confluiscono in sirtaki greci, fino ad impregnarsi di profumi tangheggianti, valzer e boleri, con un accurato lavoro sui testi assolutamente originali, ironici e a volte irriverenti.

 

 

Piovani: “La scoperta di nuove musiche è come certe cotte giovanili”

Musiche di scena per il teatro, composizioni cameristiche, canzoni, musiche di film che sono rimaste sotto la pelle. Come la colonna sonora de “La vita è bella”, che gli è valsa l’Oscar. Il maestro Nicola Piovani ha incontrato quasi tutti i maggiori autori del cinema italiano: fra gli altri, i fratelli Taviani, Nanni Moretti, Mario Monicelli, Giuseppe Tornatore, Federico Fellini. Con lo spettacolo “La musica è pericolosa”, Piovani unisce la narrazione della propria vita all’esecuzione di brani che fanno parte dei nostri ricordi. Dopo la serata in Maremma sul palco di Festambiente a Rispescia, sarà il 21 agosto a Castelbuono (Pa) e il 27 agosto al Teatro Ariston di Sanremo.

“La musica è pericolosa” è un racconto musicale, narrato dagli strumenti che agiscono in scena, pianoforte, contrabbasso, percussioni, sassofono, clarinetto, chitarra, violoncello, fisarmonica. A scandire le tappe di questo  viaggio musicale, Nicola Piovani racconta al pubblico i percorsi che lo hanno portato a fiancheggiare il lavoro di De André, Fellini, Magni, di registi spagnoli, francesi, olandesi, per teatro, cinema, televisione, cantanti strumentisti, alternando l’esecuzione di brani teatralmente inediti a nuove versioni di brani più noti, riarrangiati per l’occasione. I video di scena integrano il racconto teatrale con scene di film, di spettacoli e immagini che artisti come Luzzati e Manara hanno dedicato all’opera musicale di Piovani. “La musica è pericolosa” è anche un libro, edito da Rizzoli, che affascina descrivendo quella di Piovani come una esistenza nel segno della musica, costellata di incontri che la musica ha reso possibili: con Fabrizio De André, con cui ha scritto due album capitali come “Non al denaro, non all’amore né al cielo” e “Storia di un impiegato”; con il pubblico che lo ha ascoltato dal vivo nei cabaret o nei teatri; con i registi per i quali ha scritto alcune delle colonne sonore che hanno segnato quarant’anni di cinema. Piovani parla di musica ma anche delle partite della Roma viste a casa di Ennio Morricone e dei pranzi con Elsa Morante. Una galleria di personaggi indimenticabili.

Maestro, la musica è pericolosa, diceva Fellini. Ma è un pericolo che vale la pena correre?

“Senza questo tipo di pericoli la vita diventa insipida. Immagini una vita senza l’emozione di una nuova scoperta artistica – magari di un romanzo, un film, una poesia, una canzone, che a volte, come si dice, ci cambiano la vita – senza il brivido di un innamoramento adolescenziale? Ecco, per me la scoperta di nuove musiche somiglia molto a certe cotte giovanili”.

È vero che molte delle sue musiche prendono ispirazione anche dalla sua infanzia?

“Penso che questo sia vero per tutti quelli che fanno il mio mestiere: nello spettacolo racconto il batticuore che da ragazzino mi dava la banda del paesino dove andavo in vacanza. Comporre è un atto che attinge comunque alla fonte della memoria, in primis quella infantile: secondo me vale per Beethoven e vale per Califano”.

Ha portato il suo spettacolo anche a Festambiente. Condivide le battaglie di Legambiente?

“Mi chiedo solo come sia possibile non condividerle, almeno nei princìpi generali. Sono temi fondamentali, eticamente e politicamente certi, in un momento di grandi incertezze ideologiche”.

Lei ha lavorato con grandi registi, con Monicelli avete mai scherzato? E con Benigni?

“Si scherzava e si scherza con molti registi, adesso non ne ricordo nessuno che fosse serioso, che non giocasse sul lavoro. Forse è capitato con un regista belga… Una volta, ricordo, mi offrirono un film-commedia sentimentale con Uma Thurman e Vanessa Redgrave, per la regia di John Irvin. Andai a parlare con lui, col regista, e gli dissi: La ringrazio molto della proposta, ma le devo confessare che a me non piacciono per niente le commedie sentimentali. Lui rispose: Neanche a me. Allora lavoreremo benissimo insieme. E accettai il film”.

Che effetto le fa sapere che le musiche che ha composto accompagnano i ricordi di una miriade di persone?

È un bell’effetto, bellissimo. Ma poi penso: Chissà come le ricordano? La memoria fa dei begli scherzetti, a tutti, ricordiamo con lenti deformate, tendenziose… Ma sono comunque felice di entrare nell’album mentale dei ricordi altrui”.

Qual è il momento più bello di un concerto? Il silenzio d’ascolto? L’applauso?

“Il momento più bello di un concerto è tutto il concerto stesso; a partire da quell’attimo magico in cui si sta per iniziare, calano le luci della platea, il pubblico tossisce un po’ di più per schiarirsi la gola per non rischiare di disturbare dopo: un gesto di amore per lo spettacolo. Momento magico sia quando sono in platea e da spettatore aspetto che lo spettacolo cominci, sia quando sto dietro le quinte e sento gli spettatori che si affrettano a sedersi. Poi, naturalmente, il silenzio è un gran regalo che il pubblico ci fa quando suoniamo, il silenzio attivo, che dal palco si sente, e si distingue bene dal silenzio distratto”.

Lei compone, suona ma che musica ascolta?

“Ascolto un po’ di tutto: soprattutto musica dal vivo, opere e concerti sinfonici, da camera. Ma non mi faccio mancare una mia playlist su Spotify: in questo momento c’è dentro Bruckner, il Mefistofele di Boito, i Radiohaed, Michel Petrucciani, Saint-Saens, Poulenc, Rufus Wainwright,  Walchiria, Daniele Silvestri… La curiosità è difficile da spegnere”.

 

 

 

“The Seventies”, la tribute band degli “Chic”, in tour

“Tutti, in tutto il mondo, lo sentono nell’aria, oh sì, è il momento di allentare la pressione…”, canta il coro nell’ultimo pezzo dei Duran Duran, “Pressure off”, appunto. Parto dalla fine, da questo brano che è il terzo bis chiesto dalla piazza festante alla band sul palco, “The Seventies”. Generosa, perché dopo due ore no stop, dopo il secondo bis, mentre si apprestava al turn off, non dice di no al pubblico che ne vuole ancora. Di musica, di cantare, di ballare un po’, di respirare spensieratezza, allentare la tensione dopo l’ennesima notizia che scuote il mondo per la sua cieca violenza.

È un viaggio nella musica dance, trascinante, con hit del passato e nuove, canzoni che conoscono a memoria tante generazioni. Una musica senza tempo se fa ballare i bambini e i settantenni.

La band “The Seventies” è nata per celebrare il gruppo americano degli “Chic” e i loro fondatori, Nile Rodgers e Bernard Edwards, che sono stati leader indiscussi della musica funk disco dance negli anni ’70 e ’80. E ne è l’unica tribute band italiana attualmente attiva. La compongono dieci musicisti di vasta esperienza quali: Isabella Del Principe (voce), Jessica Angiolini (voce), Francesco Polizzi (chitarra, voce), Paolo Iagnocco (basso, voce), Perry Miracco (voce e tastiere), Alessio Buccella (tastiere), Alfredo Flaminio (batteria), Arturo Giordano (percussioni), Aldo Milani (sax) e Andrea Lagi, sostituito per questa serata da Emanuele Barbetti (tromba).

Brani storici come “We are family”, “Freak out” e “Good times” sono stati le colonne sonore dei sabato sera nelle discoteche di fine secolo. Ancora oggi, Nile Rodgers produce i maggiori successi del momento, su tutti “Get lucky” e “Happy” dei Daft Punk, “Pressure off” dei Duran Duran, che infatti sono inseriti nella scaletta dei brani proposti da “The Seventies”, che nell’occasione del ventennale della scomparsa del bassista e co-fondatore degli “Chic”, Bernard Edwards, presenta uno spettacolo che ripercorre fedelmente, sia come scaletta, che come numero di musicisti, il concerto che gli “Chic” stanno portando in giro nella tournée mondiale. Li abbiamo ascoltati a Scarlino Scalo (Grosseto), cantando, non resistendo a star fermi nelle sedie… E adesso ci aspettiamo di sentirli presto in un nuovo concerto. Freak out! La musica spazza via la stanchezza e i soliti pensieri che spesso appesantiscono il quotidiano. La mente si riposa, anzi danza.